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Femminicidi, basta minuti di silenzio: è il momento di urlare

Giulia Cecchettin è l’ultima delle centocinque donne uccise quest’anno. Centocinque. Presa a calci, pugni, coltellate, buttata giù da un dirupo ai bordi del lago di Barcis. Ventidue anni. Ventidue. E’ difficile dopo una notizia del genere tentare di esercitare la razionalità ma è necessario. E’ necessario chiedersi, come sempre, perché tutto ciò accada. Dobbiamo chiederci perché donne in cerca di libertà e di vita trovino catene e morte. Dobbiamo chiederci perché un giovane uomo di ventidue anni, ventidue, non riesca a sopportare che la sua ex fidanzata consegua la laurea prima di lui, non riesca ad accettare la fine della loro relazione e non voglia rispettare la volontà di lei. L’insegnamento più importante questa volta arriva da Elena, sorella di Giulia, che in una lettera al Corriere del Veneto scrive: “Filippo Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro”. Giulia come le altre è stata vittima di un uomo padrone, padroni che se non possono avere una donna, proprio come si possiede un’auto o un orologio, riferiscono che quella donna non esista. Preferiscono addirittura, in alcuni casi, che la loro famiglia non esista perché spesso vengono uccisi anche i figli. Rispetto allo scorso anno il numero dei delitti commessi in ambito familiare/affettivo e dal partner o ex partner risulta in aumento.

E’ necessaria un’assunzione di responsabilità collettiva. Non basta l’indignazione e non basta modificare il “codice rosso” e inasprire le pene. Quando parliamo di norma penale è perché il reato si è già consumato, serve invece una strategia di prevenzione di medio e lungo periodo, serve agire sulla cultura, nelle scuole in primis ma non solo. La Cgil lo fa, da anni, nei luoghi di lavoro, organizzando assemblee, formando i delegati e le delegate sindacali sul tema e coinvolgendo centri antiviolenza, psicologhe e avvocate. Basta con questa retorica che dipinge gli uomini come esseri disorientati dall’emancipazione e dall’avanzata delle donne nella società. Impariamo ad usare gli aggettivi giusti. Chi uccide una donna è un assassino, chi violenta una donna è uno stupratore, chi molesta una donna è un molestatore. E fondamentale che gli uomini facciano la loro parte, tutti. Come ha avuto il coraggio e la forza di dire Elena Checchettin davanti alle telecamere, esponendosi alle critiche più bieche nonostante sia sorella sia appena stata uccisa. Non tutti gli uomini sono violenti, certo ma possono e devono opporsi quando viene mercificato il corpo di una donna, quando ricevono sul loro telefono delle foto che ledono la dignità delle donne, quando un loro amico fa dei commenti inopportuni rivolti ad una donna (oggi viene chiamato “catcalling” e ce lo faremo andare bene), quando un collega fa apprezzamenti inappropriati e non graditi ad una collega. Le donne della Cgil lo chiedono a gran voce da anni: educhiamo gli uomini. Diamo loro gli strumenti per gestire l’abbandono, la sensazione di inferiorità difronte ai successi delle loro partner, la libertà delle loro partner, per accettare un tradimento. Decostruiamo la cultura del possesso. Le donne non sono le donne di nessuno, le donne sono compiute in quanto persone non in quanto compagne, mogli, ex compagne, ex mogli.

Serve l’impegno di tutta la società, serve la sensibilità solidale. I centri antiviolenza sono i luoghi deputati ad accogliere le donne che subiscono violenze ma la decisione per la donna non è mai semplice. Accettare di essere vittima di violenza non è ovvio, per questo è molto importante che si crei una rete di familiari, amici, vicini di casa attorno alla donna. Una rete che non ignori le liti, che non sia indifferente davanti ai lividi. I luoghi di lavoro possono essere luoghi dove le donne trovano protezione e salvezza tramite i delegati e le delegate sindacali e tramite la collaborazione stretta dell’organizzazione sindacale con i centri antiviolenza.

La famiglia di Giulia ha ragione, basta con i minuti di silenzio. Adesso c’è bisogno di urlare.

Gaia Angelo – Segreteria Cgil Varese

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