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Frontalieri: “tassa della salute”, la battaglia del sindacato

Ad oltre venti mesi dalla sua introduzione con legge di bilancio 2024, non un euro è stato ancora prelevato dalle tasche dei “vecchi frontalieri” (i 90.000 esclusi dalle nuove regole fiscale con clausola di salvaguardia sottoscritta dalle Organizzazioni sindacali lo stesso giorno della firma del trattato Italia-Svizzera nel 2020), attraverso la famigerata “tassa sulla salute”, che gli epigoni chiamano contributo per non incorrere nel divieto OCSE della doppia tassazione. La legge 83/23 approvata all’unanimità del Parlamento in giugno, infatti, aveva espressamente escluso l’applicazione di un’ulteriore tassa aggiuntiva rispetto alle regole del 1976, modificando l’imposizione solo per i nuovi contratti di lavoro stipulati a partire dal luglio 2023, ma la bulimia finanziaria del Governo Meloni l’ha, soltanto pochi mesi dopo, prima introdotta e poi gravata di sanzioni per i potenziali inadempienti.

Le proteste dei lavoratori frontalieri per la prima volta in piazza, le complicazioni applicative relative alla destinazione d’uso dichiarata dal legislatore verso gli operatori sanitari quale improbabile forma di deterrenza alla migrazione in Svizzera, ma soprattutto l’assenza di dati sulle retribuzioni dei destinatari (le cui posizioni sono patrimonio deli istituti previdenziali estere e, perlopiù, sconosciuti all’INPS), ha impedito finno ad oggi la sua applicazione.

A ciò si sono aggiunte le nostre non certo marginali obiezioni circa evidenti profili di legittimità costituzionale: la garanzia universale della sanità pubblica (art.32), la potestà legislativa dello Stato in ottemperanza agli obblighi internazionali (art. 117), il divieto della doppia imposizione secondo le regole OCSE già richiamata; circostanze quest’ultime che in assenza di una soluzione condivisa, ci porteranno dritti alla Corte Costituzionale.

A tal proposito, nei mesi scorsi con CISL e UIL, temendo un’accelerazione (le entrate del primo anno fiscale vanno computate sulle dichiarazioni del 2025), abbiamo tentato una via d’uscita proponendo di trasformare la tassa in un vero contributo. La trasformazione in un contributo volontario a fronte di una contropartita sotto forma di welfare (sulla falsa riga di quanto i CCNL prevedono in forme integrative per i lavoratori in Italia), avrebbe cancellato di fatto la doppia imposizione, lasciato liberi i lavoratori di aderirvi, costituito per la prima volta una forma di welfare di frontiera per i “migranti di corto raggio”. L’indisposizione di Regione Lombardia (le altre tre regioni di confine non proferiscono parola) ad intervenire in tal senso, pur condividendo la proposta di un welfare per i frontalieri, chiude ulteriormente gli spazi negoziali. Gli incontri di queste ultime settimane non sembrano sortire alcuna altra ragionevole ipotesi.

La determinazione formale con cui la Regione è determinata ad andare avanti e che fissano la tassa al 3% del salario, che annunciano una non meglio precisata disponibilità a garantire fino al 30% del gettito anche a finanziare un welfare di frontiera, a trasferire il 70% dello stesso gettito nelle tasche del personale sanitario per scoraggiarlo a trasferirsi oltre confine, dopo averlo prelevato da altre tasche ovviamente, non sembrano lasciare ad oggi molti spazi di manovra. Mentre il MILAV di concerto con il MEF scrive a distanza di due anni dalla legge il decreto attuativo, nelle prossime settimane riprenderemo il confronto con i lavoratori convocando le assemblee territoriali a partire da Varese il 3 novembre. Con loro, con i lavoratori di frontiera da Aosta a Bolzano, definiremo percorsi ed iniziative a contrasto della norma.

Giuseppe Augurusa – Responsabile Cgil Nazionale per i Frontalieri

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