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Cittadinanza ad Assange, per una libera informazione

Uno stato di guerra  giustifica il divieto al diritto delle nostre democrazie: quello di informare? Il caso Assange ripropone la domanda. Su di essa un dibattito in Consiglio comunale a Varese

Nel corso del 2024, molti Consigli comunali si sono trovati a discutere della eventuale concessione della cittadinanza onoraria a Julian Assange. Molti Consigli comunali hanno deliberato tale riconoscimento. Non quello di Varese, che ha respinto la proposta inoltrata dal gruppo consiliare Progetto Concittadino.

In realtà il tema posto dalla mozione in discussione andava ben al di là del personaggio di Assange e della sua storia. Vale la pena di ricordare che Assange, fondatore nel 2006 di «Wikileaks», è stato liberato il 24 giugno di quest’anno dopo aver trascorso 1.901 giorni di detenzione, accusato di aver diffuso, nel 2010, documenti riservati del Pentagono, che provavano crimini di guerra (crimini di guerra!) consumati nel corso delle operazioni militari in Afghanistan e in Iraq.

Gli Stati Uniti lo hanno accusato di aver violato l’Espionage Act, una legge approvata dal Congresso americano nel 1917, allo scopo di reprimere quelle attività che, in tempo di guerra, erano considerate pericolose o sleali (tristemente famoso fu il caso dei coniugi Julius ed Ethel Rosenberg, condannati a morte nel 1953 con l’accusa di aver trasmesso all’Urss segreti relativi allo sviluppo della bomba atomica).

Per la prima volta, però, nel caso di Julian Assange, si è fatto ricorso all’Espionage Act per contestare la pubblicazione sui mezzi d’informazione di documenti riservati.

Pertanto il problema che fa da sfondo al caso Assange e che ci riguarda molto da vicino è se la eccezionalità rappresentata da uno stato di guerra giustifichi il divieto di uno dei diritti fondamentali delle nostre democrazie: quello di informare e di essere informati.

Ed è un problema quanto mai attuale per noi oggi. Mi permetto di ricordare il recente caso dei giornalisti italiani della Rai, Stefania Battistini e Simone Traini, inseriti recentemente dal ministero dell’Interno russo nella lista dei ricercati, per aver documentato l’incursione ucraina nella regione russa di Kursk (per aver «attraversato illegalmente il confine di Stato della Federazione Russa e avere filmato un video nel territorio del villaggio di Sudzha, nella regione di Kursk», recita il provvedimento).

Eppure, l’articolo 29 della Costituzione della Federazione russa recita:

«A ciascuno è garantita la libertà di pensiero e di parola […]. Ciascuno ha diritto a cercare, ottenere, trasmettere, produrre e diffondere liberamente informazioni con qualunque mezzo consentito dalla legge. […] Viene garantita la libertà dei mezzi d’informazione di massa. La censura è vietata».

Ma, appunto, quando si è in uno stato di guerra, sembra che libertà e diritti possano essere tranquillamente sospesi.

Paradossalmente, in un tempo storico nel quale ci sembra che il flusso di informazioni sia costante e apparentemente libero, il diritto di cronaca non è scontato né è garantito. Non è garantito nemmeno per noi, nella nostra più che matura democrazia. Può capitare, come ha scritto qualcuno (e l’esempio è molto realistico), che scrivere oggi di “insalata russa” su uno qualunque dei social network più frequentati faccia correre il rischio di essere bannati.

Da più di vent’anni viviamo in una situazione di guerre esplose, mai ufficialmente dichiarate né mai risolte. La nostra attenzione viene continuamente orientata sulla base di una sorta di listino di una triste borsa dolori (che cosa ne sappiamo, oggi, della situazione irachena, afghana o della guerra in Siria…). E dobbiamo tristemente prendere atto che, in uno stato perenne di guerra, la libera circolazione delle notizie sembra essere la prima vittima.

Riconoscere la cittadinanza a Julian Assange – questo è il mio parere – vuol dire ribadire qui e adesso che i processi democratici non possono essere mai sospesi; che nulla può giustificare azioni, che contrastino con i principi di umanità e giustizia, che sono alla base delle nostre democrazie; che la formazione libera della libera opinione è necessaria e indispensabile per il mantenimento dell’ordine democratico.

Enzo R. Laforgia 

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